Io Capitano – Recensione #venezia80

4/5

Matteo Garrone si fa portavoce di una narrazione sui migranti che abbraccia il linguaggio cinematografico, affrontando il tema con un approccio profondo e introspettivo che contrasta con la superficialità della cronaca televisiva e le semplificazioni della politica. Il suo film “Io Capitano” si concentra sulle ragioni dietro il viaggio dei migranti e sulle sue implicazioni umane, seguendo il classico schema del romanzo di formazione.

L’approccio di Garrone è corretto e persino coraggioso, ma il film sembra sacrificare le emozioni in favore della rigorosa analisi, perdendo l’opportunità di toccare veramente il cuore dello spettatore. Dietro questa opera si cela l’ambizione di allontanare la narrazione dei migranti dalla mera rappresentazione quantitativa che prevale spesso nei media, concentrandosi invece sul lato umano delle storie migratorie. Il film cerca di esplorare le motivazioni culturali dei migranti al di là delle questioni economiche, la loro identità prima di lasciare il paese d’origine e la loro percezione dell’Occidente. Questa ambizione è condivisa con altri film recenti dedicati al tema dei clandestini, come “Tolo Tolo”, “Flee” ed “Europa”, che utilizzano il linguaggio cinematografico in modi diversi per approfondire la dimensione intima dei personaggi, mettendo in primo piano le persone anziché solo i loro corpi.

Nel suo ultimo film, Matteo Garrone fa sì che l’interesse umanistico nei confronti dei personaggi di Seydou e Moussa si identifichi con una narrazione che evita deliberatamente di affrontare il tema dei trafficanti o dell’accoglienza, preferendo concentrarsi sulle motivazioni che li spingono a intraprendere questo pericoloso viaggio e sulle conseguenze di questa scelta. “Io Capitano” prende il rischio di ritrarre un Senegal che, seppur povero, è felice e non afflitto da guerre o carestie. Questo mondo contrasta con la solitudine dei migranti e la colonna sonora sottolinea i silenzi del loro viaggio attraverso il Sahara. La fotografia del film è intensa e ricca, seguendo lo stile tipico di Garrone, che utilizza colori e suoni vividi per attenuare la miseria delle vite dei protagonisti.

La domanda principale che il film pone è: perché questi due ragazzi scelgono di partire? Non avrebbero potuto cercare un aiuto nel loro paese d’origine anziché pagare i trafficanti di esseri umani? La risposta sta nel fatto che Seydou e Moussa sono due sedicenni normali, con sogni e aspirazioni simili a quelli dei loro coetanei in tutto il mondo. Sognano una vita migliore, influenzati dalla cultura occidentale che trovano su YouTube e immaginano di diventare delle star nel “nuovo mondo”, firmando autografi per ragazzi bianchi. Il loro viaggio è diverso da quello di molti migranti disperati; sembra più una storia di crescita in cui partono con ingenuità e finiscono con amarezza. Garrone sposta l’attenzione sui valori, esaminando il diritto dei giovani africani a cercare pari opportunità, nonostante siano nati in una parte svantaggiata del mondo.

“Io Capitano” è presentato come una reinterpretazione contemporanea dell’Odissea, ma presenta numerosi paralleli con un altro film di Garrone del 2019, “Pinocchio”. L’aspirazione dei migranti a realizzare i propri sogni si riflette nella ricerca di Pinocchio per diventare un bambino reale. Entrambe le storie seguono un cammino simile, con incontri con personaggi ambigui lungo la strada. Le bugie sono una costante nel film, dalla menzogna implicita nel titolo stesso alla strategia segreta di Seydou e Moussa per lasciare il Senegal, passando per le false promesse dei trafficanti di esseri umani. Questa connessione con “Pinocchio” aiuta a posizionare il film nella categoria del “coming of age”, utilizzando archetipi familiari per allargare il contesto al di là della cronaca.

Nel complesso, l’approccio di Matteo Garrone sembra corretto, rigoroso e audace nel tentativo di raccontare i sogni dei migranti al di là della mera sopravvivenza e di rispondere alle semplificazioni del populismo. Tuttavia, questa precisione sembra a volte sopraffare il coinvolgimento emotivo dello spettatore, e l’interesse verso i personaggi può sembrare più intellettuale che empatico. Per evitare il sentimentalismo e la manipolazione emotiva, “Io Capitano” sembra sacrificare alcune delle emozioni in favore della seccante analisi. Col passare dei minuti, la narrazione del viaggio si appiattisce senza offrire nuove prospettive o veramente sconvolgere il pubblico.

La storia di Seydou rappresenta il passaggio da una mentalità individualista alla consapevolezza della responsabilità verso gli altri. Nonostante alcune sequenze notevoli, come la traversata notturna nel deserto del Sahara dove i migranti diventano ombre disumanizzate, il film manca di un senso di minaccia reale, nonostante gli orrori del viaggio. Avrebbe giovato al film un tocco di autentico cinema per alzare lo sguardo al di là della rappresentazione televisiva dei flussi migratori. Sorprende che Garrone, con la sua abilità cinematografica, non sia riuscito completamente a farlo. Pur rimanendo un film necessario, “Io Capitano” non riesce a raggiungere completamente gli obiettivi che si prefiggeva.

In definitiva, dopo il successo di “Pinocchio”, Matteo Garrone sembra compiere un passo indietro non richiesto, mettendosi al servizio della narrazione ma trattenendo il suo sguardo distintivo. Avremmo preferito vedere la stessa audacia vista in film come “L’imbalsamatore”, “Primo Amore

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